“Le storie contenute nel mito sono archetipi che parlano dell’uomo in modo assoluto, universale ed eterno. Non è un caso che gli scrittori colti si confrontino con il passato costituito dal serbatoio dei miti classici, dando una loro personale interpretazione, attraversandolo per analogia o per opposizione. Mi sono piacevolmente scontrata con Mariangela Gualtieri che nell’ultima silloge poetica “Le giovani parole” rievoca la figura di Euridice, la ninfa amata dal cantore Orfeo, dedicandole una poesia, nella quale invoca Orfeo, il marito venuto nell’Ade per riportarla sulla terra e in vita, di non voltarsi e di lasciarla sola perché la parte migliore è situata proprio nell’aldilà e lei vuole ritornare proprio lì. È un’Euridice contemporanea percorsa da inquietudini profonde, incapace di raggiungere un posto equilibrato nel mondo, ma con un’eco biblica della moglie di Lot, tramutata in una statua di sale, per aver disobbedito ai dettami del Dio, come Orfeo.
Euridice
Tu senti che vado lontano
Mariangela Gualtieri
Il contatto con il mito classico rende ancora vitale e necessario il retroterra e frizzante di inusitata energia la contemporaneità, afflitta dal ciarpame frivolo e insensato dell’esposizione di sé, fine a se stessa o dalle pappe sentimentali di gusto bovaryano. Una corrente biunivoca, quindi, che la ricezione aperta del classico nell’oggi produce negli intelletti sensibili e raffinati. Come quello di Claudio Magris, massimo slavista e scrittore eccellente, che nei suoi libri percorre spesso le vie dei classici greci e rivisita il mito di Euridice nella pièce teatrale “Lei dunque capirà”, recentemente portata sulle scene dall’attrice Elisabetta Pozzi. La protagonista vive in una Casa di Riposo, affetta da un’infezione che la mortifica, e ripercorre in un monologo appassionato e vibrante la sua storia con il marito, un poeta, che lei ha ripulito dei fronzoli inutili ed eccessivamente mondani che il suo mestiere comporta. Rivolgendosi al Presidente della Casa di Riposo, un’entità inafferrabile che ben si identifica con il re dell’Ade, “che scruta i cuori e non si lascia ingannare dalle sceneggiate e dalle lacrime facili”, Euridice commenta il permesso richiesto dal marito, disorientato e reso monco dalla sua assenza, per consentirle di tornare all’eros vissuto con lui e rievocato nostalgicamente dalla protagonista. Orfeo ha perso il se stesso autentico, affiorato grazie a Euridice, che, a differenza sua, non ha paura degli abissi a cui l’amore può condurre e in cui gli amanti sprofondare. Il monologo di Euridice si interroga sull’amore e sull’impossibile ricerca della verità, contaminando il mito di soffi di moderna irrequietezza e vanità. Poiché l’amore è credere, fede, fiducia, Orfeo appare un uomo di poca fede, teso tutto alla lamentela facile, alle paure adolescenziali, alla fragilità dell’uomo spodestato dal suo potere patriarcale. Euridice è la sua Musa e guida nel mondo e nell’eros, in grado di renderlo uomo e cambiarlo in meglio. Il marito-poeta ha bisogno di lei e per questo ha il coraggio di chiedere e di ottenere da Presidente-caso unico-il permesso di lasciare la Casa. L’epilogo comune al mito è nel monologo di Magris giustificato dalla decisione di Euridice di non seguire il suo uomo, che la cerca per ottenere da lei “il segreto dell’origine, della fine”, che lei, ignara, non può dargli. Le ombre che abitano nella Casa di Riposo non sono a conoscenza della verità sulla vita, mentre quelli di fuori pensano che sia in loro possesso. Nulla dei segreti dello stare al mondo è conosciuto da chicchesia, vivente o no- è l’assunto di Magris. La rinuncia di Euridice ha come conseguenza il dolore del marito, ma anche la sua ritrovata forza e serenità: vivere nell’inconsapevolezza è decisamente meglio che sapere gli abissi corrucciati e pericolosi della verità”.
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